martedì 13 giugno 2017

GUNS N' ROSES LIVE A IMOLA IL 10-06-2017 "WHERE THE GIRLS ARE GREEN AND THE GRASS IS PRETTY" // TESTO E GALLERY DI LJUBO UNGHERELLI


Prima d’ogni altra cosa, è d’uopo esprimere piena solidarietà ai possessori del biglietto “Early entry”. Early nel vero senso della parola, dato che per sfruttare il costoso sovrappiù bisognava presentarsi in loco alle 9.30 antimeridiane. La sincera speranza è che tutti loro siano riusciti a guadagnare la transenna e non schiodarsene fino alle 23.25, pena il rischio d’esser sopravanzati da qualcuno che, come chi scrive, è entrato alle 18 e senza eccessiva fatica ha raggiunto le prime file. Svolta la premessa, e steso un velo pietoso sull’“organizzazione” (che pure è stata un po’ meno disastrosa di altre volte), andiamo a dire dell’evento rock del 2017, sold out da dicembre 2016… ops, i biglietti erano “stranamente” tornati in vendita a una decina di giorni dal concerto… aspetta un secondo, chi era che organizzava? Ah ecco, allora torna tutto. Sabato 10 giugno il circo ha messo le tende presso l’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, chiamando a raccolta svariate decine di migliaia di anime di ogni età, sesso, razza e religione. L’attesa è scalpitante, e considerati anche gli esosi esborsi sostenuti dagli astanti, la speranza è che il salasso sia ripagato da una giornata da ricordare. Spoiler: sarà più o meno così. Il primo numero che il circo riversa sull’assolata platea imolese è quello di Phil Campbell and The Bastard Sons. Dalle 18.45, il chitarrista dei Motörhead, il su’ figliolo e altri loschi individui propongono un rock’n’roll marcio quasi quanto l’impianto audio che finge di diffonderlo, rendendolo pressoché inintelligibile. A spiccare sono prevedibilmente i ripescaggi dal repertorio del gruppo in cui Campbell è stato scudiero del compianto Lemmy: nella fattispecie, “Born to raise hell” e, ça va sans dire, “Ace of spades”.


Alle 19.35, tocca a quei meravigliosi ciarlatani di nome The Darkness. I fratelli Hawkins, Frankie Poullian e Rufus Taylor (omologo e figlio del batterista dei Queen, Roger) irrompono sul palco a colpi di “Black shuck” e per tre quarti d’ora tengono in pugno la scena, forse memori di quando, nel 2004, poco lontano da Imola, al Parco Nord di Bologna, erano headliner di un festival e prima di loro era in cartellone una band con in organico quattro ex membri dei Guns N’ Roses, due dei quali, con annesso remunerativo ribaltone, si esibiranno di lì a poco sotto il vessillo donde erano stati acrimoniosamente allontanati. Pur alle prese con problemi tecnici e un’acustica sempre deficitaria, e con la voce di Justin Hawkins ormai lontana dagli antichi splendori, il gruppo inglese intrattiene alla stragrande un pubblico sorprendentemente reattivo nei confronti dell’opening act. 


La maestosa spaccata verticale del frontman, a testa in giù, è il numero circense più riuscito dell’intera giornata. Un maldestro tentativo di emulazione, da parte addirittura del pachidermico Slash, sarà attuato in seguito. Mentre i soliti malevoli ironizzano sul ritardo che i notoriamente lunatici Gunners accumuleranno sull’orario d’inizio del concerto, prestabilito per le 20.45, è da notare come alle medesime 20.45 il circo si sia messo in moto già da una decina di minuti. In gravissimo anticipo, introdotti da visual non proprio di eccelsa fattura, i circensi si presentano sul palco. Sono i carneadi della situazione ad apparire per primi. D’altronde questa reunion figlia della crisi economica mondiale ha fatto sì che non vi fossero abbastanza quattrini per tutti quanti, con la conseguente estromissione del batterista Steven Adler e del fondatore Izzy Stradlin. Sicché è pur sempre una line-up raffazzonata ad aver intrapreso dal 2016 l’acclamato “Not in this lifetime tour”. Su tutti, l’immarcescibile yes man Dizzy Reed, democristiano di ferro in salsa Guns, che da oltre un quarto di secolo resiste stoico al turnover di musicisti assunti e giubilati dal lider maximo Axl Rose. C’è poi il chitarrista Richard Fortus, pagato forse in noccioline e popcorn (rimasti a disposizione in contumacia di Adler), tanto che non può nemmeno permettersi un vestiario suo, e per l’occasione un italico benefattore gli ha rivogato una t-shirt di Diabolik, icona della fumettistica tricolore. Sullo sfondo, il batterista Frank Ferrer e la tastierista Melissa Reese. Un nero e una donna che suonano nei Guns N’ Roses. Altro segnale della spietata recessione: Axl Rose non può più essere l’impeccabile razzista e sessista di un tempo e gli tocca collaborare con esseri che ritiene inferiori. Al pari, peraltro, dei due redivivi compagni d’arme, con cui è costretto a coesistere anche se li odia a dei livelli inimmaginabili. Arrivano anche costoro, a dare un senso alla pseudo reunion.


Il musicista contabile Duff McKagan, che alterna il lavoro al circo del rock’n’roll alle consulenze finanziarie e alla stesura di libri autobiografici (già due, tradotti pure in italiano). Secco come un chiodo, segnato in volto dall’incedere degli anni, il bassista di Seattle, anima punk del gruppo, si aggira per l’Europa come uno spettro di marxiana memoria. Rigonfio nella sua opulenza quasi più che nella chioma forse posticcia e spiaccicata dalla celeberrima tuba, Slash ha compiuto la più imprevedibile “riappacificazione” dai tempi di Reagan e Gorbaciov. “Slash è un cancro”, aveva sobriamente dichiarato Rose qualche anno fa. Ora si sta forse curando con rimedi omeopatici e dieta vegana alla stregua di una Eleonora Brigliadori qualsiasi, mentre il pittoresco chitarrista inglese aleggia a breve distanza da lui. Ed eccolo, W.Axl Rose, inesorabilmente imbolsito ma un figurino rispetto al tozzo e spompato barile di fine anni Duemila e dintorni. E soprattutto titolare di una delle voci più versatili e caratteristiche in ambito rock, che pare aver decentemente conservato. Il carismatico quanto controverso artista originario dell’Indiana è il principale catalizzatore dell’intero circo. Al di là di tutto, si parla della più grande rock’n’roll band della sua epoca, e di una delle più grandi in assoluto. Capace di sdoganare i suoni “duri” e portarli di peso nelle classifiche e negli stadi. Inoltre, quando vi raccontano la barzelletta che i Guns sono stati spazzati via dal grunge, fatevi una risata. I Guns si sono autodistrutti, implosi per conflitti di ego, deliri di onnipotenza e quant’altro. Nessuno li avrebbe mai scalzati dal loro trono. 


E questo trionfale ritorno, dopo anni in cui comunque il marchio Guns N’ Roses faceva registrare lusinghieri incassi al botteghino con il solo Axl Rose attorniato da gente che passava di lì per caso, ne è tangibile riprova. È sufficiente il giro di basso di “It’s so easy” per riconfermarcelo. La folla esplode, il pit diventa una bolgia, salvo poi acquietarsi in qualche decina di minuti. Sono note inconfondibili, quelle dei numerosi brani di “Appetite for destruction” e dei classici del quadruplo “Use your illusion” in scaletta. C’è poco altro da aggiungere. Certo, a ben vedere, qualche incrinatura la si trova. Gli acerrimi nemici interagiscono pochissimo tra loro, sono molto meno dinamici sul palco, e questo linguaggio del corpo non favorisce la totale alchimia col pubblico. A tratti pare un esercizio di stile, e senza dubbio lo è. Solo che altri sono più abili a mascherarlo. Qui la tensione è altresì palpabile. Al netto di queste considerazioni, il circo si protrae per centosettanta minuti. Poche chiacchiere, sostituite da lunghi siparietti ai quali peraltro i Guns sono sempre stati avvezzi. Dal tema del “Padrino” a un francamente inaffrontabile rifacimento strumentale della pinkfloydiana “Wish you were here”, sino al numero appannaggio del Duff, che accenna “You can’t put your arms around a memory” di Johnny Thunders prima di sfociare in “Attitude” dei Misfits (entrambe rivisitate nel disco di cover “The spaghetti incident”). Pezzi che si “arricchiscono” di intro e outro rubacchiate qua e là, da “Layla” a “Voodoo child”, fino alle riletture integrali di “The seeker” degli Who e “Black hole sun” dei Soundgarden, tributo alla memoria di Chris Cornell, il cui gruppo supportò live i Guns nel 1992 e fu omaggiato nel predetto “The spaghetti incident” con una reprise di “Big dumb sex”. Il circo è chiaramente incentrato sui numeri originali: “Mr. Brownstone”, “Welcome to the jungle”, “Civil war”, “Rocket queen”, “You could be mine”, “My Michelle”, per dirne alcune. Anche tre estratti dal famigerato “Chinese demcoracy” (sic), eseguiti con entusiasmo dai convitati di pietra Slash e Duff. “November rain”


Ogniqualvolta si sparla del criticabilissimo Rose, giova ricordare che si tratta della medesima persona che ha scritto questa canzone monumentale, che interpreta seduto al piano col dovuto pathos quantunque con qualche sbavatura sua e dell’amico chitarrista. Il crescendo finale è da brividi. A proposito: qualcuno ha mai capito di cosa muore la tipa nel videoclip? “Paradise City” è l’ovvia chiusa. Coriandoli sparati sulla folla e gli ultimi numeri pirotecnici. Pure quelli risentono dei tagli al budget. Fuochi d’artificio così loffi che nemmeno i “fischioni” che vendevano in cartoleria a ridosso del capodanno.


Resta un corollario musicale di prim’ordine, una celebrazione del rock’n’roll in tutto il suo (contraddittorio) spirito. Il circo toglie infine le tende e il pubblico tenta di guadagnare la via del ritorno, resa ulteriormente improba da una gestione del deflusso condotta con una sagacia che lascia immaginare che le forze dell’ordine impiegate allo scopo fossero state cooptate tramite un concorso esterno, indetto dagli arguti organizzatori del concerto stesso. Il circo è bello, divertente e rassicurante, quasi innocuo, tanto che lascia felici grandi e piccini.


Uno spettacolo per famiglie, la cui colonna sonora, ad ogni modo, è tra le cose più sublimi che il rock abbia tramandato ai posteri da trent’anni a questa parte. Che vi piaccia o no.



Testo e Gallery di Ljubo Ungherelli


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